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giovedì 22 novembre 2012

Sulla musica e dintorni - Intervista di Quote a Dente



(…) la novità in musica è una cosa difficile e non è mai compresa quando c’è. Le cose nuove e di rottura diventano fenomeni di culto solo dopo qualche tempo (...), dice Giuseppe Peveri, in arte Dente, nel corso della bella intervista rilasciata a Eugenia Durante per Quote. Un'intervista di cui riportiamo alcuni stralci in cui si dibatte di musica e, soprattutto, del modo in cui oggi se ne fruisce. Ma non solo.

 

 
Dente in una foto di Carlo Polisano pubblicata nell'articolo di Quote

(…) in Italia non si fa altro che parlare di passato. Quando si parla di canzone d’autore o cantautorato, non si riesce a fare a meno di citare i grandi nomi del passato e sminuire il presente. Dicono che il cantautorato sia morto e che il confronto sia impietoso. Perché non riusciamo ad andare avanti?

Mah, o perché non siamo abbastanza bravi noi, o perché gli altri erano molto più bravi di noi… Considera comunque che probabilmente nel ’73 De Gregori non era considerato come lo è oggi, nel ’68 Dalla non aveva la stessa fama che ha oggi, quindi ci vuole anche il suo tempo per riuscire a dire che qualcuno è importante. Poi magari è anche colpa nostra, Dente non è poi un fenomeno così nuovo. In realtà è un discorso abbastanza complicato, perché la novità in musica è una cosa difficile e non è mai compresa quando c’è. Le cose nuove e di rottura diventano fenomeni di culto solo dopo qualche tempo. In Italia è ancora più difficile perché abbiamo alle spalle tutto questo passato glorioso, che è effettivamente glorioso, non possiamo negarlo. Quindi fare meglio è molto difficile, però sono anche tempi diversi, musica diversa, gente diversa. Il problema è che l’Italia è cambiata tantissimo dagli anni ’70, quando ci siamo fermati. Dopo gli anni ’70 bisogna cercare le cose nuove e interessanti col lanternino, almeno per quanto riguarda il tipo di musica che faccio io. Non è accaduto nulla di così eclatante, e questo è effettivamente vero, non lo posso negare. Una canzone di Peppino di Capri oggi la ascolti ancora, o un De Gregori. Invece il singolo di Ramazzotti del ’93 non se lo ricorda nessuno. Forse perché non c’è stato più nessuno che ha fatto dei classici. I classici a un certo punto si sono fermati. Però in realtà ci sono canzoni scritte negli ultimi anni che potrebbero diventare dei classici. 

Quindi è questione di tempo?

Forse è questione di tempo e anche di mentalità della gente che deve divulgare queste cose, perché ovviamente se io scrivo un capolavoro e me lo tengo in casa mia non diventerò mai un pilastro della musica italiana e continuerò a mangiare alla mensa dei poveri. (…) 

Il dibattito tra indipendente e mainstream è sempre un tema spinoso. Spesso, non appena un musicista o una band indipendente fa successo e comincia a girare su radio e televisioni viene accusato di essere diventato mainstream, quasi come se voler far sentire la propria voce al di là dei piccoli club fosse una bestemmia. Perché in Italia il desiderio di fare successo sembra spesso sinonimo di “vendersi”?

È una mentalità abbastanza stupida. Io ho sempre creduto che se una cosa di valore diventa popolare sia ancora migliore. Io sono felice se accade, perché vuol dire che il popolo è intelligente e ascolta cose di valore. La cosa che mi fa più rabbia di questa mentalità è proprio il fatto che se io faccio un disco per conto mio e a te, amante della musica indipendente, piace moltissimo, se questo disco fosse uscito per una major e avesse girato su tutti i network a te avrebbe fatto schifo. È una mentalità stupida perché è condizionata dal veicolo. Non si parla della musica, ma si parla di come la musica arriva. Allora, se ti arriva attraverso la televisione per un certo pubblico fa schifo, mentre per un altro tipo di pubblico è l’unica cosa possibile. Calcola che la maggior parte della gente considera una cosa reale solo se la vede in televisione. Se io non vado in televisione, per il 90 percento del popolo italiano non esisto. 

Abbiamo aperto un dibattito da sempre che temo non avrà mai fine, un po’ alla “è nato prima l’uovo o la gallina?”. A livello generale, il gusto musicale medio si è piuttosto appiattito. I tormentoni ci sono sempre stati, così come le canzoni scanzonate dai ritornelli facili, ma il successo di pezzi come “Il pulcino Pio” che arriva quasi a prendere il disco d’oro è abbastanza emblematico. Questo è quello che passa per lo più nelle radio nelle ore di punta. Secondo te, la gente ascolta musica di livello mediamente più basso perché le radio passano principalmente quello, oppure sono le radio ad adeguarsi?

È nato prima il pulcino Pio! (Ride) Non lo so, un po’ è la paura dei grandi network di passare cose di cui non sono sicuri. Torniamo sempre a Ramazzotti, mio grande idolo. (Ride) Quando esce il nuovo disco di Ramazzotti, il suo nuovo singolo passa. Io non so se passi perché è bello, perché piace, perché deve passare o perché la casa discografica dice che deve passare. Fatto sta che lui passa e io no. Se io passo, è perché un direttore artistico o un deejay dice “mi piace questo, facciamolo girare”. In Italia più della metà della musica che passa in radio non vende dischi. Tutta quella musica che sentiamo di non si sa chi, quella roba un po’ dance, vende in Italia cifre irrisorie. Vendo molti più dischi io. C’è un corto circuito strano, se ci pensi: perché io vendo 10 000 copie e non passo in radio, mentre questa cantante inglese che passa in radio tutti i giorni ed è in tv ogni sera ne vende 1000? Evidentemente il pubblico delle radio non compra i dischi. Però la mia domanda è: perché non passare cose che vendono e che possono vendere? È tutto un discorso di interessi, alla fine. Sono canzoni create per fare soldi, che è un discorso abbastanza triste, ma che purtroppo ha molto a che fare con la musica. La musica è intrattenimento e lo è sempre stata, però la musica di intrattenimento di qualche anno fa è quella che è rimasta. Il rock’n’roll anni ’50 lo conosciamo tutti, forse aveva qualcosa di più. Perché oggi ci ricordiamo di tutte le canzoni che erano in classifica nel ’66 e non ci ricordiamo quelle della settimana scorsa? Forse perché c’erano artisti più bravi, musicisti più bravi, arrangiatori più bravi, produttori migliori.

Forse c’era anche più attenzione alla musica.

Assolutamente. Anche a Sanremo c’erano delle canzoni grandi, ce le ricordiamo ancora adesso. Dello scorso Sanremo ci ricordiamo cosa? La farfallina di Belen? È diventato tutto uno spettacolo televisivo. Questo è il problema: si bada alla forma e non al contenuto. In questo paese ormai è la forma che conta. Effettivamente io devo guardare indietro, devo guardare al popolo italiano degli anni ’60 e ’70, a quanto gli italiani avessero più cultura. In realtà magari avevano meno cultura di noi, però ci tenevano a far vedere che erano acculturati. Essere acculturati era un punto d’arrivo. Se senti le interviste televisive degli anni ’60, la gente dava risposte intelligenti, parlavano. Lo status a cui arrivare un tempo era quello di avere qualcosa da dire e sapere cosa dire. Gli Oscar Mondadori che uscivano in edicola andavano a ruba. La gente leggeva. Poi magari bisogna tener conto che non c’erano le distrazioni che ci sono oggi. La televisione è da vent’anni che rimbecillisce l’Italia, purtroppo. Una volta si faceva più attenzione a tutto, ai libri, alla musica. Vedi, ci riagganciamo al discorso di prima. Se io passassi in televisione, per come la gente è abituata, dopo due puntate mi segherebbero, perché non farei audience. Dalla faceva 20 000 spettatori, aveva un programma in Rai che conduceva lui. Era una televisione diversa, una televisione in cui si parlava, si facevano ascoltare le canzoni. Oggi ai programmi televisivi si ballano e si cantano le stesse canzoni che si cantavano quarant’anni. Bandiera Gialla funziona? Dai, mettiamo Bandiera Gialla. Tra due mesi non sappiamo cosa mettere? Massì, dai, mettiamo Bandiera Gialla, tanto la gente non se lo ricorda, è confortevole.

A questo riguardo, Michele Serra aveva pubblicato un trafiletto su La Repubblica in cui diceva che bisogna rieducare la gente al silenzio. In fin dei conti, è anche il silenzio a definire il senso, l’importanza e il peso della musica, non credi? Come si fa a farsi ascoltare nell’era del rumore?

Assolutamente. Guarda, la cosa più difficile di oggi è riuscire a catturare l’attenzione della gente. La fruizione della musica è diventata velocissima. Tu mi dici “Ascoltati Tizio”, io vado su internet e lo ascolto. Se i primi trenta secondi del primo pezzo che ho trovato non mi piacciono, io dico “Tizio non mi piace”. Fine della storia. Questo vale soprattutto per le nuove generazioni. Devi colpirle nei primi trenta secondi, altrimenti sei fregato. Non per fare il vecchio, ma quando ero giovane io si andava nei negozi di dischi. Compravo un disco ed era un investimento, ci spendevo dei soldi, mi mettevo lì e lo riascoltavo quasi per farmelo piacere per forza. Adesso è tutto diverso, devi essere molto veloce perché fermarsi ad ascoltare è diventato molto più complicato. In più, come dice il buon Michele Serra, è ancora più difficile perché siamo perennemente in mezzo alla confusione. Soprattutto in Italia, all’estero non è così. Ma sì, sono convinto che rieducare la gente al silenzio sarebbe necessario. (...)


Potete leggere l'intervista integrale Chi ha pane non ha Dente cliccando su Quote Magazine 




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