Sulla prima del tour teatrale
di Marco Mengoni
agli Arcimboldi del 19 aprile scorso,
uno spettacolo che sembra
spingerci a salire e scendere
una scala a chiocciola
lungo le umane emozioni
Certo, bisognerebbe iniziare dalla
cornice. Il teatro, la gente, l'occasione... Ma tra i miei ricordi
più vividi non c'è nulla di tutto questo. C'è solo un palco acceso
da fasci di luce morbidi e colorati, con al centro la proiezione
olografica di tutte le mille e più emozioni che un essere umano
possa provare. Ed è troppo per poterne discutere “a caldo”.
Bisogna far sedimentare tutto lo stupore che si scatena alla prima
nota e che, invece di trovar pace e una sua armonia, continua a
esplodere, continua a ri-crearsi, ri-generandosi ad ogni respiro. Non
c'è tregua per chi è disposto a lasciarsi andare. Non c'è pace per
chi si abbandona sulla poltroncina – strettissima nell'occasione –
aprendo ogni singola cellula a quanto arriverà dal palco...
Ecco, i tasti del pianoforte
dell'inizio di Tonight si trasformano in una ripidissima scala a
chiocciola. Una vertigine di note secche e silenzio. Il primo giro di
accordi apre la porta di un mondo in cui ci sembra di non essere mai
stati, un mondo personale fatto quasi tutto di specchi e di ombre,
ancora tutte da decifrare, come quella che si cela dietro un leggero
drappeggio. Il suono di una tromba elegantissima lo strappa, il palco
si illumina di energia. È materia allo stato primordiale: basta
lasciarsi raggiungere senza far resistenza, e la materia riempie ogni
vuoto d'anima. Si plasma all'interno delle nostre emozioni e le
trasforma, con il calore che solo le belle fiabe sanno dare.
Si
sogna. Si sogna per quasi tre ore, complice una mimica attoriale che
rimanda al più grande italiano di tutti i tempi. Domenico Modugno,
sì, parliamo di lui. Lui che ha saputo portare sul palco, con
medesima eleganza e concretezza sia la musica più struggente che
quella più ironica, imprimendo una velocità tutta nuova all'Italian
Style, proiettandolo molto al di là delle Alpi in un vorticoso giro
del mondo che ancora non si arresta.
Inattesa, una capacità interpretativa anni 50, dalla gestualità fisica fino all'uso della voce, cambia lo scenario e ci culla con dolcezza e con sicurezza. Non abbiamo paura di niente, neanche di noi stessi mentre da lassù qualcuno riscopre, riaccende, restituisce una ragion d'essere a un classico come I Can't Help Fallin' In Love with You. Fino a ieri intoccabile perché troppo abusata, oggi piccolo immenso gioiello di classe vocale e di impatto emotivo; così come convince l'ardita Innuendo, solo un cenno per rispetto al suo autore, che piace e scuote e scompiglia. Più di quanto lo facciano le nacchere suonate a finir la collezione delle percussioni. Su quel palco ne abbiamo viste alcune davvero inusuali – come il triangolo, ad esempio – a raccontare la ricchezza musicale dello spettacolo, un live ad altissima densità.
E lo stupore, anche se sono passati giorni, non
si è placato del tutto. Ad ogni ricordo si aprono varchi di
sorprese, di ritmi serrati o di lunghe note di sax, o di corde tirate
di un contrabasso elettrico suonato con piacevolissima maestria.
The Switch, dei Planet Funk, e Fool On The Hill dei Beatles; Natbush City Limits dei Turner e una nuova versione dell'Equilibrista, limpidissima. È uno strano gioco ad incastri, dove pezzi spigolosi si incastrano perfettamente con le rotondità di altri, perché come l'energia trasforma la materia, questa materia sonora trasforma a suo piacimento l'energia che si respira, liberandoci dalla fatica dell'agire per lasciarci sognare tutto quello che vogliamo, con inebriante leggerezza.
Non siamo abituati a tanto. Abbiamo bisogno di tirare un respiro profondo. Non bastano i 15 minuti di pausa al centro dello spettacolo, perché i primi 10 vanno via solo per riprendere contatto fisico con l'ambiente, e gli altri 5 – troppo pochi... non bastano giorni – a cercare di capire cosa sia successo.
Le luci si spengono di nuovo. Si
ricomincia a volare. Poi, ecco una stella su cui aggrapparsi con
forza: è Rehab, omaggio ad Amy Winehouse, confezionato come il
regalo più bello. La voce di Marco Mengoni si lancia senza rete in
mille evoluzioni che neppure il più esperto trapezista affronterebbe
a cuor leggero. Lui sì, senza altra musica se non quella prodotta
dal battito di mano a tempo dei suoi musicisti (e il fondamentale
apporto della grancassa della batteria). È un passo a due con un
partner invisibile. Struggente, malinconico. Magnifico.
Così come lo è la versione aggiornata
di Dall'Inferno, proprio lì, giù, in fondo a quella scala a
chiocciola strettissima che saliamo e scendiamo per tutto il
concerto. Sì, alla fine abbiamo il fiato corto.
No, non c'è una sola briciola di stanchezza. L'energia che ci ha
attraversato ci ha rigenerato. Ci ha portato dietro le nostre ombre
più scure e le ha trasformate in luce. Ora siamo pronti a volare,
proprio come cantava Modugno.
Sul palco:
Marco Mengoni > voce, nacchere, tamburo, gong
Cristiano Norbedo > tastiere e tamburi
Federico Mansutti > tromba
Federico Missio > sassofoni e triangolo
Stefano Calabrese e Peter Cornacchia > chitarre
Giovanni Pallotti > basso e contrabasso elettrico
Davide Sollazzi > batteria
Marco Mengoni > voce, nacchere, tamburo, gong
Cristiano Norbedo > tastiere e tamburi
Federico Mansutti > tromba
Federico Missio > sassofoni e triangolo
Stefano Calabrese e Peter Cornacchia > chitarre
Giovanni Pallotti > basso e contrabasso elettrico
Davide Sollazzi > batteria
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