Qualche considerazione intorno a Ciao, Amore, Ciao,
la canzone di Luigi Tenco
nell'interpretazione di Marco Mengoni
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Marco Mengoni durante la sua interpretazione del brano di Luigi Tenco sul palco del Teatro Ariston |
Le
parole sono come le ciliegie: una tira l'altra. Ma, come le ciliegie,
possono essere raccolte solo a giusta maturazione, né un attimo
prima, quando risultano ancora acerbe, con quell'aspro che fa
digrignare i denti, né un attimo dopo, quando risultano mollicce e
ormai senza più alcun sapore.
Abbiamo
passato quasi una settimana ad aspettare che le nostre parole
maturassero sotto il sole di un paio di occhi lucenti di amarezza e
disperazione, al vento caldo di una musica antica e senza via
d'uscita, sotto un cielo infinito color malva, brillante di cocci di
vetro: il cielo profondo e avvolgente di una voce che risuona nuova,
romantica nella eccezione filosofica termine, "lirica", potremmo
dire.
Ciao,
Amore, Ciao. Marco.
Ci
ha ammutoliti. E non per “devastazione”, bensì per
partecipazione emotiva.
Sì,
certo: una la voce, due le corde vocali, tre minuti di una bella
canzone... Ma... c'è un “ma”: non è certo il “solito”
Marco. Quello che avevamo intuito fin dalla prima esibizione de
L'essenziale qui si fa chiaro anche all'orecchio meno abituato a
cogliere le sfumature dei suoni. Marco canta “diverso”, suona ad
una profondità che fino ad ora non avevamo ancora toccato.
"Lirico",
sì. Come i grandi cantanti d'opera, Caruso per esempio, o come la
Callas, con tutti i distinguo tra capacità strutturali maschili e
femminili. Come Janis nel blues, come Michael nel pop... Artisti "lirici", ovvero capaci di imprimere nel suono un colore che
diventa ricordo personale in chi lo ascolta, emozione che racconta
una storia di vita vissuta con ogni cellula del proprio corpo, che si
tratti di un'aria di Puccini o di Verdi, che si tratti di una canzone
dolente o di denuncia o d'amore...
Il
suono. Qui è il suono che racconta. La tonalità naturale delle
prime note apre la scena su un panorama che avremo visto mille volte,
poi una sfumatura più scura, un'ombra che arriva grigia come il fumo
ci arresta, ci costringe a guardare davvero cosa abbiamo intorno, chi
c'è e chi abbiamo perduto nel frattempo e perchè... il cuore grida
la voglia di non essere lì, in quel momento, in quell'istante in cui
si prende coscienza di una perdita irrimediabile.
La sconfitta brucia. Bisogna prendere le distanze, come succede qando il dolore che proviamo è solo per colpa nostra. Il tono torna ad essere naturale, quasi distaccato, ma quel bruciore cresce, graffia, diventa un grido. Che soffoca tra le mille luci di un tempo che corre troppo in fretta e ti lascia senza alcuna via d'uscita. Tranne quella di accettare la sconfitta, far la conta dei pezzi rimasti – rimasugli di ricordi che ormai fanno solo scivolare – e provare a tornare a mettere in fila un passo dopo l'altro.
La sconfitta brucia. Bisogna prendere le distanze, come succede qando il dolore che proviamo è solo per colpa nostra. Il tono torna ad essere naturale, quasi distaccato, ma quel bruciore cresce, graffia, diventa un grido. Che soffoca tra le mille luci di un tempo che corre troppo in fretta e ti lascia senza alcuna via d'uscita. Tranne quella di accettare la sconfitta, far la conta dei pezzi rimasti – rimasugli di ricordi che ormai fanno solo scivolare – e provare a tornare a mettere in fila un passo dopo l'altro.
E
per tutto questo non c'è bisogno di capire il testo, la lingua in
cui è stato scritto: basta la voce, la modulazione del suono.
Proprio come sanno fare i cantati grandi, i cantanti "lirici".
E
non è un caso. Non è l'interpretazione che “riesce perfetta”
come mai capiterà più. No. Perchè a distanza di tre giorni si
scopre che, nonostante le richieste e le offerte per l'incisione
della canzone (con conseguente vendita), l'anima bella che ha scelto
scientemente di raccontare al pubblico una storia così delicata e
dolente dice “no, quella canzone deve restare lì dove merita,
sullo stesso palcoscenico che quasi cinquant'anni fa l'ha rifiutata”,
rendendo così l'omaggio più grande che un artista possa fare a un
altro artista.
Un
ultimo appunto (lo avevamo detto all'inizio che le parole sono come
le ciliegie...), un'ultima sottolineatura. La canzone di Luigi Tenco
è stata scelta con coscienza, in piena consapevolezza del “treno
che mi sarebbe venuto addosso”. L'artista, il vero “grande
artista”, l'artista che abbiamo definito “lirico”, è colui che
ha il coraggio di darsi, di donare una parte di sé a un pubblico
sconosciuto, senza mai poter sapere anzitempo se il suo gesto sarà
compreso o meno.
All'artista tutto questo neanche importa più di
tanto: per un artista, per un grande artista, quello che è necessità
urgente è donarsi. E basta. E questo è il gesto più alto e nobile
di un grande: lasciarsi guardare in tutta la sua debole umanità.
(eg e mlml)
(eg e mlml)
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