(…) la novità in musica è una cosa difficile e non è mai
compresa quando c’è. Le cose nuove e di rottura diventano fenomeni
di culto solo dopo qualche tempo (...),
dice Giuseppe Peveri, in arte Dente, nel corso della bella intervista
rilasciata a Eugenia Durante per Quote. Un'intervista di cui
riportiamo alcuni stralci in cui si dibatte di musica e, soprattutto,
del modo in cui oggi se ne fruisce. Ma non solo.
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Dente in una foto di Carlo Polisano pubblicata nell'articolo di Quote |
(…)
in Italia non si fa altro che parlare di passato. Quando si parla di
canzone d’autore o cantautorato, non si riesce a fare a meno di
citare i grandi nomi del passato e sminuire il presente. Dicono che
il cantautorato sia morto e che il confronto sia impietoso. Perché
non riusciamo ad andare avanti?
Mah, o perché non siamo abbastanza bravi noi, o perché gli altri
erano molto più bravi di noi… Considera comunque che
probabilmente nel ’73 De Gregori non era considerato come lo è
oggi, nel ’68 Dalla non aveva la stessa fama che ha oggi, quindi ci
vuole anche il suo tempo per riuscire a dire che qualcuno è
importante. Poi magari è anche colpa nostra, Dente non è poi un
fenomeno così nuovo. In realtà è un discorso abbastanza
complicato, perché la novità in musica è una cosa difficile e non
è mai compresa quando c’è. Le cose nuove e di rottura diventano
fenomeni di culto solo dopo qualche tempo. In Italia è ancora più
difficile perché abbiamo alle spalle tutto questo passato glorioso,
che è effettivamente glorioso, non possiamo negarlo. Quindi fare
meglio è molto difficile, però sono anche tempi diversi, musica
diversa, gente diversa. Il problema è che l’Italia è cambiata
tantissimo dagli anni ’70, quando ci siamo fermati. Dopo gli anni
’70 bisogna cercare le cose nuove e interessanti col lanternino,
almeno per quanto riguarda il tipo di musica che faccio io. Non è
accaduto nulla di così eclatante, e questo è effettivamente vero,
non lo posso negare. Una canzone di Peppino di Capri oggi la ascolti
ancora, o un De Gregori. Invece il singolo di Ramazzotti del ’93
non se lo ricorda nessuno. Forse perché non c’è stato più
nessuno che ha fatto dei classici. I classici a un certo punto si
sono fermati. Però in realtà ci sono canzoni scritte negli ultimi
anni che potrebbero diventare dei classici.
Quindi è questione di tempo?
Forse è questione di tempo e anche di mentalità della gente che
deve divulgare queste cose, perché ovviamente se io scrivo un
capolavoro e me lo tengo in casa mia non diventerò mai un pilastro
della musica italiana e
continuerò a mangiare alla mensa dei poveri. (…)
Il dibattito tra
indipendente e mainstream è sempre un tema spinoso. Spesso, non
appena un musicista o una band indipendente fa successo e comincia a
girare su radio e televisioni viene accusato di essere diventato
mainstream, quasi come se voler far sentire la propria voce al di là
dei piccoli club fosse una bestemmia. Perché in Italia il desiderio
di fare successo sembra spesso sinonimo di “vendersi”?
È una mentalità abbastanza
stupida. Io ho sempre creduto che se una cosa di valore diventa
popolare sia ancora migliore. Io sono felice se accade, perché vuol
dire che il popolo è intelligente e ascolta cose di valore. La cosa
che mi fa più rabbia di questa mentalità è proprio il fatto che se
io faccio un disco per conto mio e a te, amante della musica
indipendente, piace moltissimo, se questo disco fosse uscito per una
major e avesse girato su tutti i network a te avrebbe fatto schifo. È
una mentalità stupida perché è condizionata dal veicolo. Non si
parla della musica, ma si parla di come la musica arriva. Allora, se
ti arriva attraverso la televisione per un certo pubblico fa schifo,
mentre per un altro tipo di pubblico è l’unica cosa possibile.
Calcola che la maggior parte della gente considera una cosa reale
solo se la vede in televisione. Se io non vado in televisione, per il
90 percento del popolo italiano non esisto.
Abbiamo aperto un
dibattito da sempre che temo non avrà mai fine, un po’ alla “è
nato prima l’uovo o la gallina?”. A livello generale, il
gusto musicale medio si è piuttosto appiattito. I tormentoni ci sono
sempre stati, così come le canzoni scanzonate dai ritornelli facili,
ma il successo di pezzi come “Il pulcino Pio” che arriva quasi a
prendere il disco d’oro è abbastanza emblematico. Questo è quello
che passa per lo più nelle radio nelle ore di punta. Secondo te, la
gente ascolta musica di livello mediamente più basso perché le
radio passano principalmente quello, oppure sono le radio ad
adeguarsi?
È nato prima il pulcino Pio! (Ride) Non lo so, un po’ è la
paura dei grandi network di passare cose di cui non sono sicuri.
Torniamo sempre a Ramazzotti, mio grande idolo. (Ride) Quando esce il
nuovo disco di Ramazzotti, il suo nuovo singolo passa. Io non so se
passi perché è bello, perché piace, perché deve passare o perché
la casa discografica dice che deve passare. Fatto sta che lui passa e
io no. Se io passo, è perché un direttore artistico o un deejay
dice “mi piace questo, facciamolo girare”. In Italia più della
metà della musica che passa in radio non vende dischi. Tutta quella
musica che sentiamo di non si sa chi, quella roba un po’ dance,
vende in Italia cifre irrisorie. Vendo molti più dischi io. C’è
un corto circuito strano, se ci pensi: perché io vendo 10 000 copie
e non passo in radio, mentre questa cantante inglese che passa in
radio tutti i giorni ed è in tv ogni sera ne vende 1000?
Evidentemente il pubblico delle radio non compra i dischi. Però la
mia domanda è: perché non passare cose che vendono e che possono
vendere? È tutto un discorso di interessi, alla fine. Sono canzoni
create per fare soldi, che è un discorso abbastanza triste, ma che
purtroppo ha molto a che fare con la musica. La musica è
intrattenimento e lo è sempre stata, però la musica di
intrattenimento di qualche anno fa è quella che è rimasta. Il
rock’n’roll anni ’50 lo conosciamo tutti, forse aveva qualcosa
di più. Perché oggi ci ricordiamo di tutte le canzoni che erano in
classifica nel ’66 e non ci ricordiamo quelle della settimana
scorsa? Forse perché c’erano artisti più bravi, musicisti più
bravi, arrangiatori più bravi, produttori
migliori.
Forse c’era anche più attenzione alla musica.
Assolutamente. Anche a Sanremo c’erano delle canzoni grandi, ce
le ricordiamo ancora adesso. Dello scorso Sanremo ci ricordiamo cosa?
La farfallina di Belen? È diventato tutto uno spettacolo televisivo.
Questo è il problema: si bada alla forma e non al contenuto. In
questo paese ormai è la forma che conta. Effettivamente io devo
guardare indietro, devo guardare al popolo italiano degli anni ’60
e ’70, a quanto gli italiani avessero più cultura. In realtà
magari avevano meno cultura di noi, però ci tenevano a far vedere
che erano acculturati. Essere acculturati era un punto d’arrivo. Se
senti le interviste televisive degli anni ’60, la gente dava
risposte intelligenti, parlavano. Lo status a cui arrivare un tempo
era quello di avere qualcosa da dire e sapere cosa dire. Gli Oscar
Mondadori che uscivano in edicola andavano a ruba. La gente leggeva.
Poi magari bisogna tener conto che non c’erano le distrazioni che
ci sono oggi. La televisione è da vent’anni che rimbecillisce
l’Italia, purtroppo. Una volta si faceva più attenzione a tutto,
ai libri, alla musica. Vedi, ci riagganciamo al discorso di prima. Se
io passassi in televisione, per come la gente è abituata, dopo due
puntate mi segherebbero, perché non farei audience. Dalla faceva 20
000 spettatori, aveva un programma in Rai che conduceva lui. Era una
televisione diversa, una televisione in cui si parlava, si facevano
ascoltare le canzoni. Oggi ai programmi televisivi si ballano e si
cantano le stesse canzoni che si cantavano quarant’anni. Bandiera
Gialla funziona? Dai, mettiamo Bandiera Gialla. Tra due mesi non
sappiamo cosa mettere? Massì, dai, mettiamo Bandiera Gialla, tanto
la gente non se lo ricorda, è
confortevole.
A questo riguardo, Michele Serra aveva pubblicato un trafiletto
su La Repubblica in cui diceva che bisogna rieducare la gente al
silenzio. In fin dei conti, è anche il silenzio a definire il senso,
l’importanza e il peso della musica, non credi? Come si fa a farsi
ascoltare nell’era del rumore?
Assolutamente. Guarda, la cosa più difficile di oggi è riuscire
a catturare l’attenzione della gente. La fruizione della musica è
diventata velocissima. Tu mi dici “Ascoltati Tizio”, io vado su
internet e lo ascolto. Se i primi trenta secondi del primo pezzo che
ho trovato non mi piacciono, io dico “Tizio non mi piace”. Fine
della storia. Questo vale soprattutto per le nuove generazioni. Devi
colpirle nei primi trenta secondi, altrimenti sei fregato. Non per
fare il vecchio, ma quando ero giovane io si andava nei negozi di
dischi. Compravo un disco ed era un investimento, ci spendevo dei
soldi, mi mettevo lì e lo riascoltavo quasi per farmelo piacere per
forza. Adesso è tutto diverso, devi essere molto veloce perché
fermarsi ad ascoltare è diventato molto più complicato. In più,
come dice il buon Michele Serra, è ancora più difficile perché
siamo perennemente in mezzo alla confusione. Soprattutto
in Italia, all’estero non è così. Ma sì, sono convinto che
rieducare la gente al silenzio sarebbe necessario. (...)
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